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A proposito dei bambini dimenticati in auto. Alcune riflessioni - di Emiliana Feroli  



A proposito dei bambini dimenticati in auto. Alcune riflessioni - di Emiliana Feroli

Secondo un articolo redatto dal giornalista Gene Weingarten, negli Stati Uniti sarebbero più di 600, dal 1998 ad oggi, i casi di bambini dimenticati in auto, la maggior parte dei quali al di sotto dei 2 anni di età.
Il fenomeno, pur se quantificato in modo dettagliato solo negli USA, è presente anche in Europa, in cui sono numerosi i casi di genitori che lasciano i bambini in macchina, provocandone accidentalmente la morte, che sopraggiunge di solito per ipertermia, asfissia e disidratazione, dovute al rapidissimo aumento di temperatura che subisce l’abitacolo di un’auto al sole. Ma chi sono questi genitori?

Un ridotto sottoinsieme di persone, non di rado affette da ludopatia, lasciano volontariamente i bambini in auto, magari con l’idea di concedersi giusto cinque minuti alla slot machine, nell’inconsapevolezza del nefasto potere che queste macchine hanno di trascinarle in uno stato di trance, in cui la dimensione temporale si dissolve.

La stragrande maggioranza dei genitori che diventano i protagonisti involontari di questi tragici episodi, invece, è “semplicemente” vittima di una fatale dimenticanza.

Ciò che maggiormente lascia sgomenti di fronte a tali episodi è proprio la sproporzione paradossale, in termini di gravità, esistente tra la causa ed il suo effetto, il contrasto insopportabile tra la semplicità di qualcosa che può capitare e capita sempre a tutti, una dimenticanza appunto, e il dramma che può implicare.
A questo punto sorge un altro, importante interrogativo: davvero può capitare a chiunque? Ebbene la risposta è si.

Viviamo immersi in una società in continuo movimento, abbiamo ritmi serrati e scadenze sempre impellenti da rispettare. Crediamo di rilassarci, magari a fine giornata, magari sul divano di casa nostra, ma quante volte ci portiamo appresso il telefono, il tablet, il pc e tutti i relativi cavi e cavetti… e allora ecco che non stacchiamo mai davvero, siamo circondati da dispositivi che sono diventati la nostra normale estensione, prolungamenti di noi stessi e delle nostre capacità cognitive che ci “aiutano” a non fermarci mai, a non smettere mai.

Ed è proprio in tale contesto che risulta centrale il restituire importanza al fermarsi, all’attendere, all’immaginare.
E se un cellulare ci segnala quando è ora di ricaricare la batteria, il nostro segnale di “batteria scarica” può essere più difficile da individuare.

Irritabilità, sensazione di stanchezza cronica, ipertensione, difficoltà nel concentrarsi, insonnia, cefalea, ansia e sentimenti depressivi sono alcuni dei segnali cui dobbiamo prestare ascolto, se vogliamo evitare che livelli eccessivi di stress ci portino a far scivolare via le cose che sono davvero importanti per noi.
Gli strumenti sono molteplici, e anche piuttosto semplici; anche solo concedersi regolarmente una breve passeggiata all’aria aperta, soli con Sé stessi, può rappresentare una strategia per imparare a sentirsi e ad ascoltarsi, mitigando il sovraccarico dovuto al lavoro, alle incombenze familiari o alle pressioni sociali.

Ma quello a cui siamo soliti assistere quando apprendiamo la notizia di un bambino lasciato in auto, è il manifestarsi di due tendenze prevalenti, entrambi finalizzate, anche se spesso in modo inopportuno, quando non francamente becero, ad una forma di “difesa”.
Da un lato, si scatena il bisogno di trovare soluzioni volte ad evitare che simili tragedie si verifichino ancora, ed ecco che l’evento tragico diventa "fenomeno", e c’è subito qualcuno che è pronto a specularci su, sempre, s’intende, a fin di bene.

In seno all’ondata di consigli e buone pratiche per evitare di dimenticare i propri bambini all’interno di un abitacolo, che sarà l’ultimo luogo che li avrà visti vivi, capita persino di apprendere di applicazioni e dispositivi finalizzati proprio ad evitare questo tipo di dimenticanza.
Mi chiedo però, se piuttosto che dotarci di altra, ulteriore tecnologia, per evitare che tragedie di questa portata si verifichino ancora, non sarebbe forse più “smart” iniziare a preoccuparci di come evitare di arrivare al crollo psico-fisico.

D’altra parte, l’altra tendenza è quella alla spietata condanna del genitore, come se davvero in casi del genere fosse possibile ignorare il fatto che, al di là di ogni giudizio sociale, questi genitori sono già condannati all’ergastolo di un dolore che non passerà mai, che non li lascerà mai davvero.

A questo proposito faccio riferimento ad una delle mie prime esperienze “sul campo”, che è consistita nell’ascoltare alcuni genitori, accomunati da un unico elemento: la morte del proprio figlio, entro il primo anno di età, a causa della Sudden Infant Death Syndrome, meglio conosciuta come “morte in culla”.

Non mi dilungherò nell’illustrare il fenomeno da un punto di vista medico, anche perché di spiegazioni certe, per questa orrenda sindrome, purtroppo non ce ne sono ancora. Ciò su cui è importante focalizzare l’attenzione è piuttosto il lutto che da tale sindrome deriva, esperienza che ho potuto osservare direttamente, e che è comune, per la maggior parte degli aspetti, sia ai genitori dei bimbi morti in culla, sia a quelli dei bimbi morti in auto.

Il lutto, in generale, porta con sé solitudine, emozioni di sgomento che arrivano fino alla negazione, provoca angoscia, disperazione, rabbia verso chi ci ha lasciato e sensi di colpa per il fatto di avercela con qualcuno che non c’è più, o per averne in qualche modo cagionato la morte. Il lutto stanca, sfinisce e sottrae colore a tutto ciò che un tempo ci rendeva gioiosi, può condurre persino a fenomeni allucinatori, per i quali possiamo convincerci che il defunto non se ne sia mai andato veramente, fino ad adottare comportamenti che possono rivelarsi nocivi e anche dispendiosi al fine di mantenere, illusoriamente, un contatto.

Ora, proviamo ad immaginare tutto questo amplificato mille volte nel caso in cui si tratti della morte di un figlio, un figlio piccolo, indifeso e non autosufficiente, e immaginiamo che questo figlio piccolo sia proprio il nostro, e che questi genitori “smemorati” siamo proprio noi. Immaginiamo poi di doverci scontrare con insinuazioni ed accuse, magari diffuse attraverso i social, dove chi ci attacca è sicuro che la sua indignazione sarà sbandierata fieramente sotto gli occhi di tutti, qualcuno non abbastanza consapevole da rendersi conto che il suo attacco è in realtà solo una difesa, di fronte alla paura che una simile perdita possa colpire anche lui.

Se avete svolto correttamente questo piccolo esercizio di immaginazione e vi fermate un momento a riflettere, capirete bene come tanto il dare ferme condanne, quanto il proporre soluzioni “d’emergenza”, possa rivelarsi superfluo, se paragonato alla necessità di restituire senso al nostro tempo, di riappropriarci della nostra esistenza, di vivere in armonia con la nostra lentezza.

(Emiliana Feroli - Psicologa - Esperta in Psicologia Giuridica - Tutor didattica dei Corsi di Alta Formazione del CSC - Membro del Comitato Scientifico del Centro per gli Studi Criminologici)


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