Il CSC partecipa ad un progetto per un nuovo modo di “fare carcere” - di Claudio Mariani Quando si parla di criminalità, di carcere, di sicurezza, è ovvio che si apra un panorama di opinioni estremamente ampio spesso determinato dai propri orientamenti sociali e culturali, a volte da tristi esperienze personali e in alcuni casi dalle notizie diffuse dai media; un tema così complesso esige chiaramente molta cautela e soprattutto grande rispetto per ogni corrente di pensiero. E’ piuttosto bizzarra però la circostanza che le opinioni siano estremamente variabili a seconda del contesto o del momento in cui vengono riportate: durante i convegni per addetti ai lavori ad esempio si insiste sulla necessità di privilegiare la rieducazione e la risocializzazione del condannato; negli studi televisivi o sui giornali all’indomani di un fatto di cronaca invece, si lamenta un regime detentivo troppo blando e poco deterrente; durante le campagne elettorali infine, molti politici cavalcano l’insicurezza per giustificare interventi repressivi; insomma, sembra che siano più il contesto e il momento storico a determinare un orientamento piuttosto che i reali obiettivi. Ciò premesso, pertanto, ci sembra del tutto inutile, a questo punto, richiamare il principio riportato all’art. 27 della nostra Costituzione dove si precisa (senza sè e senza ma) che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Per quanto condivisa da chi scrive infatti, si tratta di un’affermazione che purtroppo si scontra con una realtà differente dove difficoltà oggettive si accompagnano ad altre meno sostenibili, ma che di fatto rendono il nostro sistema carcerario poco adeguato a soddisfare un impegno così importante. E questa non può essere considerata un’opinione soggettiva, in quanto suffragata dai dati ufficiali del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (DAP) dai quali si evince che la percentuale di recidiva dei detenuti tornati in libertà è superiore al 67%: come dire che quasi 7 detenuti su 10 tornano a delinquere! Una statistica così allarmante non può che indurre a riflettere: evidentemente questo sistema non funziona e nuove strade dovrebbero essere progettate per restituire alla società persone disposte al cambiamento e non più pericolose; e questo non per buonismo verso i responsabili di azioni spesso orribili ma per soddisfare il bisogno di maggior sicurezza di una comunità. In una memorabile poesia del quindicesimo secolo John Donne immortalava il concetto secondo il quale “nessun uomo è un’isola” e “se una zolla viene portata via dall’onda del mare, la terra ne è diminuita”. Il carcere oggi, per quanto concepito per sanzionare i comportamenti devianti e per difendere la società dalla devianza stessa, di fatto sta diventando un grande contenitore di “zolle” che si sono staccate dalla terra più o meno consapevolmente; ma tutti noi sappiamo che nessun bambino nasce cattivo e che quasi tutte le patologie possono essere curate, non per buonismo, ma per restituire alla comunità quella zolla portata via dall’onda del mare e che può ancora contribuire a formare un terreno dove poter camminare, dove poggiare le fondamenta di una casa, dove poter seminare … Proponiamo a questo punto una statistica un po’ meno conosciuta: forse non tutti sanno che la percentuale di recidiva per i detenuti ammessi a scontare una pena alternativa alla detenzione quali ad esempio l’impiego in attività lavorative o didattiche in regime di semilibertà o affidamento ai servizi sociali è inferiore all’1%! Dovrebbe essere sufficiente questo dato per pensare ad una immediata inversione di rotta, ma il problema è che quell’1% genera sempre un grande allarme sociale; quando infatti un detenuto in permesso premio rapina una tabaccheria ad esempio, immediatamente legittima una comprensibile irritazione di massa e tutti si chiedono chi è “quell’incompetente” che ha emesso un simile provvedimento; per quanto legittima sia una simile reazione, occorrerebbe pensare anche alle altre centinaia di detenuti in regime alternativo che nello stesso giorno stanno lavorando e operando all’interno di un percorso di inclusione che li riporterà all’interno della società come risorse e non più come problemi, ma si sa che suscita molto più clamore un caso di mala sanità piuttosto che mille casi di buona sanità di ogni giorno nei nostri ospedali. Il problema semmai è l’assenza di strutture che si facciano carico di una missione così utile e al tempo stesso delicata: è difficile infatti pretendere che all’interno di un carcere dove gli spazi sono quasi sempre insufficienti, il personale sottodimensionato e le risorse troppo modeste in confronto alle reali esigenze, si possa programmare la rinascita di persone nuove, in grado di abiurare la subcultura della devianza dalla quale provengono e sposare culture alternative: spesso non esistono neanche i presupposti per proporre nuove culture. Ma abbiamo sperimentato, da decenni ormai, che laddove la comunità esterna accoglie non per segregare e escludere ma per proporre ed accompagnare coloro che hanno sbagliato e percorrere insieme a loro un tratto di strada insieme, i risultati sono quasi sempre efficaci e riabilitanti. Non è importante quale sia la struttura che accoglie: può essere un’impresa o una cooperativa agricola che propone il sudore come valore e non solo come fatica, può essere una scuola o un centro studi che propone la cultura e lo studio come fascino del sapere e non come un compito noioso, può essere un convento che propone la preghiera e la ricerca come strumento per ritrovare sé stessi e non come bigotto integralismo, e potremmo continuare a lungo per dire che ognuno può accogliere e compiere piccoli miracoli che interrompano quel conflitto sociale che di fatto continua a dividere e che ricompongano finalmente quei legami sociali spezzati. Il Centro Studi Criminologici ha sposato questa filosofia: NOI non guardiamo al passato di una persona che abbia dimostrato interesse per la scienza e la conoscenza, ma al futuro e alla sua possibilità di collaborare ad un progetto comune, un progetto in grado di offrire collaborazione e non problemi. E’ proprio di questi giorni l’ammissione di Rudy Guede, l’unico condannato per il giallo di Perugia di oltre 10 anni or sono, a frequentare un tirocinio didattico presso il nostro Centro Studi: Rudy si è già laureato in storia con 110 e lode e presso di noi ha la possibilità di imparare nuove tecniche di catalogazione di una biblioteca. Riteniamo in primo luogo degna di menzione la mentalità illuminata della Direzione della Casa Circondariale e dell’Ufficio di Sorveglianza che hanno consentito questa opportunità e al tempo stesso crediamo che anche la città di Viterbo possa vantare una interessante forma di partecipazione, perché come si è già detto non è un atto di buonismo a vantaggio di un singolo ma, di un concreto impegno sociale a vantaggio della collettività. Noi non crediamo di aver realizzato nulla di straordinario; proponiamo quel che è la nostra attività istituzionale e nulla di più: lo studio; qualsiasi altra struttura imprenditoriale, commerciale o altro, potrebbe partecipare con iniziative simili e sentirsi coinvolti in tal modo in un piccolo grande progetto: un nuovo modo di “fare carcere”, sicuramente più efficace … e non perché lo diciamo noi ma perché lo documentano i numeri ! (Claudio Mariani - Avvocato - Criminologo - Direttore Area Criminologia del CSC - Direttore del Dipartimento di Vittimologia e di Studi Penitenziari del CSC - Direttore del corso di Educazione al Diritto e Criminologia presso la C.C. di Viterbo )
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