Quando “indagato” diventa sinonimo di “condannato”. La Signora è cieca, ma la giustizia (alla fine) ci ha visto benissimo - di Lara Stefani Il processo penale di primo grado lo si può, grossolanamente, dividere in fasi, le indagini preliminari e il dibattimento, che si conclude con l’emissione della sentenza. Nel corso delle indagini il soggetto, che viene tecnicamente indicato come “indagato”, è il perno delle investigazioni della Procura che va alla ricerca di elementi a suo carico, e a discarico (spesso solo in teoria) per permettere poi al Pubblico Ministero di richiedere al Gip l’archiviazione o il rinvio a giudizio (non me ne vogliano i miei colleghi per questa semplificazione ai minimi termini). Quindi, con il rinvio a giudizio, quando viene richiesto, l’”indagato” diventa “imputato” e su di lui pesa, tra capo e collo, un capo di imputazione che altro non è che un sunto dell’illecito, presumibilmente commesso, che sarà accertato nel corso del dibattimento. E qui mi fermo. “Illecito presumibilmente commesso”, perché il nostro Legislatore, all’art. 27 della Costituzione, ha codificato il principio della presunzione di non colpevolezza dell’indagato/imputato, fino alla sentenza definitiva. Traduciamo… Non si può additare come colpevole qualcuno nei cui confronti è ancora in corso un procedimento penale e non sia stata ancora pronunciata sentenza definitiva di condanna. Ecco cosa è successo. Una signora di, allora, 71 anni (oggi 77) è finita nella morsa della Giustizia per il reato di truffa aggravata, accusata, in sostanza, di aver percepito indebitamente dallo Stato la pensione da cieca e l’indennità di accompagnamento. Forti di immagini e video che ritraevano la Signora svolgere mansioni reputate (da chi?) incompatibili con la sua patologia, la Procura e l’opinione pubblica, locale e nazionale, hanno iniziato la loro crociata contro la “finta cieca”, invocando giustizia. Peccato che, in realtà, la nostra “finta cieca” è affetta da circa trent’anni da una sindrome che, nel tempo, progressivamente, la conduce ad una cecità assoluta. E peccato che, nel corso del dibattimento, siano confluiti nel fascicolo del Giudice certificazioni di specialisti che confermavano la patologia, una consulenza tecnica di parte che ancora ribadiva la sua condizione, nonché, da ultimo, una perizia che non ha più lasciato adito a dubbi. La Signora è cieca assoluta, le attività svolte, motivo di accanimento dell’opinione pubblica, sono compatibili con il residuo visivo accertato, ha dunque diritto alla indennità di accompagnamento e alla pensione (riassumo in maniera sommaria le conclusioni del perito. Non me ne voglia neanche il perito). Per questi motivi il Giudice ha assolto, con la formula più ampia, la “(non più) finta cieca” dal reato contestato, restituendole, così, oltre ai suoi soldi, la sua dignità. Vi ho parlato dell’inizio della storia e della fine. Ma nel mezzo? Nel mezzo (...e, attenzione, si parla di un periodo lungo più di sei anni) la “(ancora) finta cieca”, oltre alla convivenza con la sua patologia, ha dovuto sopportare il peso di essere additata, dai vicini, al supermercato, alla posta, alla piazza del paese, sul giornale locale, al tg,... come “ladra”, “truffatrice”, ha dovuto sopportare le chiacchiere, pungenti, dei passaparola, l’etichetta che le è stata ingiustamente appiccicata addosso e che ha lasciato un’eco che difficilmente si riuscirà ad interrompere. E questo è solo uno dei tanti esempi... Il diritto è, sì, nei codici, nelle leggi, ma questi servono a regolare la realtà, e quando un principio viene disatteso o non correttamente applicato, si tratta, sì, di una questione di diritto, ma si riversa poi negli affetti, sugli amici del calcetto, del tressette, sul tè della domenica, nelle palestre, negli uffici, nelle scampagnate in primavera… E questo perché, nel linguaggio dei media (spesso, perché non è bene generalizzare) essere indagati equivale ad essere imputati, ed essere imputati equivale ad essere già condannati (ricordate la fasi del processo che ho detto all’inizio?) Ed anche perché siamo umani, e siamo facilmente influenzabili, e poi… se lo dice la Procura e la stampa… allora sarà così! Ed ecco (spero di essere stata chiara) il perché dell’importanza del rispetto del principio di non colpevolezza fino all’emissione della sentenza definitiva, e l’esigenza di maneggiare con cura le parole, i fatti, senza giungere a conclusioni affrettate, a giudizi definitivi senza passare per i processi e per le aule di Tribunale che sono, per definizione, le sedi naturali di applicazione della giustizia. ….Perché difficilmente l’eco della assoluzione avrà poi una lunghezza d’onda pari all’eco delle accuse (ingiustamente mosse). (Lara Stefani è Avvocato e Giornalista - Collabora con l'Area Giuridico Penale e con l'Area Giornalismo del Centro per gli Studi Criminologici , giuridici e sociologici.)
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