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Gli Esperti scrivono
Vite da Galeotti - di Lara Stefani
 
 



Vite da galeotti - di Lara Stefani

Guardiamo lo stesso cielo, ma mentre il nostro non ha confini, il loro, da qualsiasi punto lo si guardi, è sempre contenuto in una cornice di ferro. E lì tutte le stelle non entrano, spesso non c’entra neanche la luna.

Loro sono quelli che la giustizia ha valutato colpevoli, preventivamente o definitivamente, alcuni attendono un giudizio, altri tentano di sopravvivere al giudizio. Dall’esterno il carcere sembra un’entità unica, quasi inanimata, e spesso ci si dimentica che è fatto invece di persone.
Semplicisticamente, potremmo suddividere questi insoliti villeggianti in due categorie, quelli di passaggio e quelli che restano.

Per coloro che sono in attesa di una sentenza il carcere rappresenta un luogo di transito, di preghiere che spesso vengono esaudite. Per alcuni è un momento di crescita personale che li rende migliori, consapevoli, che permetterà loro di costruirsi, al di fuori di quelle mura, una vita nuova, rispettosa delle regole sociali e della moralità. Per altri sarà solo l’ennesima sosta in un hotel senza stelle dove di tanto in tanto torneranno senza mai tentare di intraprendere strade differenti.
L’altra categoria è quella formata da coloro che restano, il carcere è la loro casa. Sul fascicolo l’indicazione “fine pena: mai” distrugge ogni prospettiva, speranza, distrugge il futuro. Gli ergastolani possono solo confidare che la buona condotta carceraria dia loro la possibilità di uscire, periodicamente, per assaporare la vita qui fuori, in bocconi fugaci…e sperare nei miracoli della giustizia, perché quelli divini volgono lo sguardo altrove.

Le carceri sono, per definizione, l’unico luogo in cui lo Stato ammette la possibilità della restrizione della libertà personale, che è diritto inviolabile dell’uomo. La dignità umana, che si sostanzia nel “diritto al rispetto”, rappresenta la perfetta sintesi tra libertà ed eguaglianza. Tali componenti possono subire, in situazioni eccezionali e per motivi di sicurezza, delle limitazioni, che comunque non debbono in alcun modo sminuire il valore della persona nel suo complesso, ed ecco il perché delle strutture carcerarie.

L’art. 27 terzo comma della Costituzione che, indirettamente, pone un accento sul valore qualitativo della persona, prescrive che la pena non deve avere una finalità puramente afflittiva, ma piuttosto tendere alla rieducazione del condannato. Con tale espressione la legge richiede che si predisponga tutto il necessario per permettere al condannato di reinserirsi nella società, ponendo particolare attenzione al recupero dei concetti di convivenza sociale e legalità. Se dunque sono vietati tutti quei trattamenti contrari al senso di umanità, è invece giuridicamente necessario che la struttura carceraria fornisca strumenti concreti affinché il detenuto eserciti tutti i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione. Ogni limitazione nell’esercizio di tali diritti che non sia strettamente funzionale a questo obiettivo acquista, dunque, un valore afflittivo supplementare rispetto alla privazione della libertà personale, incompatibile con l’art. 27 della Costituzione.
 
In questo mondo così anacronistico, ma così reale, alla costante ricerca del giusto equilibrio tra l’esigenza di punizione e la necessità della rieducazione del condannato, noi Avvocati siamo l’unico anello di passaggio, il filtro tra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori. Entriamo negli istituti carcerari portando buone e cattive notizie, forti di codici, norme, leggi, sentenze, giurisprudenze granitiche, come spesso usiamo dire...e quando siamo pronti a sciorinare con estrema scioltezza la pappardella studiata alla perfezione, seduti di fronte a noi troviamo solo persone. I demoni che descrivono  i media, spesso, ma non sempre, si risolvono in individui, normalissimi, che hanno bisogno di essere rassicurati, incoraggiati, aiutati. E lì, necessariamente, occorre spogliarsi della toga ed appoggiarla un po’ più in là, senza sgualcirla, ovvio, per vestire i panni di padri, mogli, mariti, figli, parroci, psicologi. In un attimo la severità di volti da duro si scioglie in un bisogno disperato di risposte, rassicurazioni, consigli, speranze... E fa strano rendersi conto di come la mente di un uomo possa essere tanto crudele e tanto fragile allo stesso tempo…e fa strano vederli piangere, con i loro mille tatuaggi, le cicatrici e le teste rasate. Sono spesso lontani dagli affetti, dalla famiglia...e per questo abbiamo addosso tutta la responsabilità di mantenerli in contatto col mondo là fuori che non li aspetta, che a breve si dimenticherà di loro, se non li educhiamo nuovamente alla vita.

E quando è l’ora di salutarli, chiedono di aggiornarli, di tornare, scrivere, a loro modo di non dimenticarli. Spesso sono saluti sinceri che nascondono la paura dell’abbandono, altre volte si assiste solo a teatrini messi in scena alla perfezione che si ripeteranno nel tempo sempre uguali. Per questi detenuti che pensano di essere più furbi, più pronti, più capaci di chi li assiste, non c’è speranza di cambiamento, di crescita, di rieducazione, per parlare come parla la giustizia.
Allontanandosi da quella stanzetta angusta, luogo del colloquio, che segna il punto  di contatto tra i liberi e i reclusi, uscendo dal carcere, che sembra un grosso labirinto a camere stagne, l’unico rumore che si sente è quello metallico delle chiavi appese alle cinture dei secondini. Le porte, in successione, ti si chiudono dietro con gran frastuono e vanno nuovamente a ripristinare i confini, netti, della vita carceraria.

Ma poi, in fondo, chi sono veramente i liberi e chi i reclusi? La costituzione, il carcere, sono tutti strumenti tesi a porre limiti al corpo, a tutto ciò che è materiale, tangibile, confinato, finito...ma la dignità, la libertà, la voglia di vivere potranno mai essere davvero contenuti dallo Stato in una scatola? Non esistono forse corpi reclusi con menti libere e corpi liberi con menti recluse? La società necessita di regole, di ordine, ha bisogno per non autodistruggersi di applaudire i buoni e punire i cattivi, proprio come nelle fiabe, ma la libertà interiore è cosa diversa da quella fisica e non soffre di claustrofobia. Se vive di sogni e di speranze ha motivo di sopravvivere anche nei luoghi più inospitali. 
 
...E quando ci si ritrova fuori, a guardare di nuovo quella immensa costruzione, che agli occhi degli ignari pare inanimata, ponendo attenzione, la si riscopre viva, il grigio delle pareti in alcuni punti lascia intravedere tenui colori e tendendo l’orecchio, sotto il rumore sordo delle maledizioni e delle imprecazioni, si possono udire, in un armonioso concerto, motivetti, melodie... ed è quello il suono della speranza.

(Lara Stefani  è Avvocato e Giornalista - Collabora con l'Area Giuridico Penale e con l'Area Giornalismo del Centro per gli Studi Criminologici , giuridici e sociologici.)



 


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