Egitto: una lotta infinita - di Tsao Cevoli «Il direttore di questo museo si sta facendo gioco di noi. Tratterò questo museo come un criminale, classificandolo come un museo criminale». È il 24 marzo 2006 quando il Direttore Generale delle Antichità, Zahi Hawass, reagisce senza mezzi termini al rifiuto dell’Art Museum di Saint Louis, negli Stati Uniti, di restituire una maschera funeraria proveniente da uno scavo clandestino in Egitto Scoperto nel 1952 in una piramide di Saqqara, il prezioso reperto era uscito illegalmente dall’Egitto qualche anno dopo, facendo perdere le proprie tracce per ben quarant’anni, fino alla sua ricomparsa nel 1998 nelle sale del Saint Louis Art Museum. Quarant’anni di clandestinità, depistaggi e vere o false compravendite. Quel che si sa è solo che a venderla al museo americano è la Phoenix Ancient Art, la galleria d’arte fondata nel 1968 da Sleiman Aboutaam e poi passata ai suoi figli Hicham e Ali Aboutaam, due trafficanti internazionali di antichità ben noti alle forze dell’ordine e agli inquirenti in diversi paesi del mondo. Tra i casi eclatanti che li riguardano anche quello dell’Apollo Sauroctonos esposto al Museo di Cleveland, ma questa è un’altra storia. Parole non meno decise aveva rivolto Hawass anche ad un altro ben più noto museo, il British Museum di Londra, a cui nel luglio del 2003 l’Egitto aveva chiesto la restituzione della Stele di Rosetta, trafugata dall’esercito francese durante la campagna napoleonica: «se gli Inglesi vogliono essere ricordati, devono riabilitare la loro reputazione, offrendosi volontariamente di restituire la pietra, perché è l’icona della nostra identità egizia». Parole con le quali Zahi Hawass aveva cercato anche di alimentare una campagna nazionale ed internazionale per recuperare importanti reperti archeologici dall’alto valore identitario, sparsi nelle collezioni egizie di tutto il mondo. I due episodi citati da soli bastano ad esemplificare l’entità della lotta che Zahi Hawass e i suoi funzionari per decenni hanno quotidianamente affrontato per contrastare il trafugamento e l’esportazione illecita delle antichità dal loro paese. Un impegno incessante che costituisce la motivazione del premio alla carriera che il Centro per gli Studi Criminologici ha deciso di assegnare al celebre archeologo egiziano e che gli sarà consegnato il 29 giugno 2018 a Viterbo in collaborazione con l’Osservatorio Internazionale Archeomafie, in occasione di un evento promosso dalla Fondazione Caffeina. Un premio che è per la collettività anche un invito a tenere viva l’attenzione su una battaglia che non è affatto finita. L’Egitto, per la capacità attrattiva esercitata dalla sua millenaria civiltà, che si sostanzia di uno straordinario patrimonio archeologico e culturale, è stato e continua da sempre ad essere territorio di conquista e saccheggio. Tanto i grandi saccheggi napoleonici, quanto i traffici attuali dei fratelli Aboutamm e di altri come loro, si inseriscono, infatti, in un unico, più ampio ed ancora attuale fenomeno. Un saccheggio operato da una bassa manovalanza criminale che raccoglie le briciole e foraggia un ricchissimo mercato gestito da organizzazioni criminali trasnazionali. Ad alimentare le richieste del mercato, ora come allora, è soprattutto una ragione di natura simbolica ed ideologica: il desiderio da parte da parte delle classi dominanti delle grandi potenze europee ed occidentali, ed oggi anche asiatiche, di possedere quelli che sono comunemente percepiti come i massimi simboli di potenza e di potere a cui un essere umano possa ambire, i tesori dei faraoni. Se non ci fosse domanda non ci sarebbe offerta. Se non ci fossero le richieste dei collezionisti e dei musei, non vi sarebbero gli scavi clandestini, non vi sarebbe il saccheggio del patrimonio culturale egiziano. Tutto era ed è mosso dalle ossessioni archeofilo-feticistiche dei danarosi esponenti della classe medio-alta globale e dal consapevole o inconscio intento dei grandi musei stranieri di continuare ad alimentare la propria grandeur, l’idea di primato culturale e politico della nazione in cui si trovano, la concezione colonialista ed imperialista delle grandi potenze mondiali, di cui tali musei sono stati e spesso continuano ad essere il riflesso. Gli acquirenti finali, per quanto pulite sembrino, hanno le mani sporche di terra, portano la responsabilità morale e politica degli scavi clandestini che, in Egitto come altrove, distruggono i contesti archeologici, cancellando irrimediabilmente le tante storie che fanno la nostra storia, la storia dell’Umanità. (Tsao Cevoli - Archeologo e giornalista. Direttore dell'Area Patrimonio Culturale e membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Criminologici, dove ha fondato e dirige dal 2015 il Master Archeologia Giudiziaria e Crimini contro il Patrimonio Culturale)
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